Attenti a Maya!

Il giardino dei bambùNel giardino del tempio i due monaci meditavano silenziosamente da alcune ore.

Le canne di bambù oscillavano lentamente allo spirare di una brezza leggerissima, mentre il sole pareva immobile, alto nel cielo. Due punti quasi impercettibili nell'immenso azzurro erano i discreti segni della Vita e del Movimento.

I monaci meditavano sul mistero dell'illusione e dell'apparenza: "Attenti a Maya!" aveva detto il Buddha.

"Ecco" pensava uno "il sole che io vedo non è che apparenza" ed era felice di esserne consapevole. "Anche i bambù del giardino non sono che apparenza" e la sua felicità si faceva più grande."Anche quest'altro monaco, in fondo, non è che apparenza" ed era così felice che sollevò il viso sorridente verso il cielo.

Intanto l'altro monaco aveva una visione. Un uomo stranamente abbigliato con una parrucca incipriata in capo gli parlava in un idioma mai udito (ma di cui miracolosamente egli poteva comprendere il significato) e gli spiegava che i fenomeni fisici sono regolati da leggi, che i corpi si attraggono l'un l'altro e che i gravi cadono verso terra con accelerazione costante. Il monaco era dubbioso, perché temeva di essere preda di Maya, l'illusione.

Poi le rondini si avvicinarono, volteggiando rapide sul capo dei due monaci. "Merda!" dissero i due, all'unisono.

Avevano ricevuto l'Illuminazione.


Il paradosso del sorite.

Alle porte di una città dell'antica Grecia sedeva un uomo non più giovane, che non era Socrate. In terra accanto a lui c'era una ciotola di coccio, che non era un reperto archeologico, con la quale elemosinava.

Un giorno giunse alla città un giovane ricco, che non era Pericle. Si avvicinò al mendicante e, vedendo che nella ciotola non c'erano che poche monete di rame disse, in modo che tutti potessero sentirlo: "Ecco una moneta d'argento, vecchio! Se tutti fossero generosi come lo sono io, tu saresti ricco!"

Il vecchio alzò lo sguardo e disse: "Non mendico per diventare ricco. Ma se così fosse non basterebbe la generosità di cui, a sproposito, ti vanti." Il giovane, che non era intelligentissimo, si offese e disse: "Come! Invece d'essermi grato tu m'offendi! Dovrei riprendermi la mia moneta, ma invece, ecco, te ne do un'altra. E potrei continuare fino a farti ricco, se solo lo volessi." "E invece non potresti." disse il vecchio "Questa moneta che mi hai dato ora non ha fatto di me un ricco più di quanto non avesse fatto l'altra, che mi hai dato prima. Quindi come potresti, continuando così, darmi una moneta che mi faccia ricco?"

Proprio in quel momento si trovò a passare di là un saggio cinese, che non era Lao-Tze. Capì tutto e non disse niente.


L'ultima vittoria.

L'uomo era alto, e il pennacchio sul cappello di feltro a tesa larga accentuava l'imponenza della sua figura robusta. I capelli lunghi fino alla spalla e i baffi folti ed elegantemente arricciati in punta unitamente agli occhi neri e profondissimi ne avevano fatto l'idolo delle dame della Corte. Scriveva versi galanti, componeva musica e tirava di scherma con pari abilità e naturalezza; non c'era in tutto il Regno di Francia chi ardisse sfidarlo ed egli lo sapeva bene.

Eppure, in fondo, aspettava con ansia l'avvento di un rivale, per consolidare la sua fama di invincibilità. Per essere pronto si allenava ogni giorno con la spada e studiava ogni giorno i classici della poesia e della musica, sempre pensando all'avversario che un giorno gli si sarebbe presentato e che egli, lo sentiva, avrebbe sconfitto. I mesi passavano, e così gli anni. Gli esercizi con la spada occupavano sempre le ore del mattino, la musica il pomeriggio e la poesia la notte. Ma il rivale non veniva.

Decise di cercarlo: avrebbe viaggiato per tutta l'Europa, e poi l'Asia, l'Africa e forse il Nuovo Mondo, al di là dell'Oceano!

Così fece, ma la sua fama lo precedeva e nessuno lo sfidava. Viaggiò per anni e tornò in Francia senza aver ottenuto ciò che oramai costituiva l'unico scopo della sua vita. Si ritirò in una villa di campagna dove continuò a prepararsi all'ultimo duello che doveva rendere immortale la sua fama. Visse così per molti anni ed era un vecchio dalle spalle curve con radi capelli bianchi e lo sguardo fisso ed ostinato quando smise di scendere in cortile ogni giorno con la spada, perché le gambe erano troppo deboli. Poi gli si fiaccarono le braccia, e non potè più suonare. Infine la vista si indebolì fino a lasciarlo cieco e non potè più leggere o scrivere.

A quel punto si disse: "Non resta che la Morte!" e pensò che quello era l'avversario cercato inutilmente per tanti anni e che non c'era modo di sconfiggerlo. "Però sarò io stesso a scegliere il modo e l'ora e questa sarà la mia vittoria."

Lo ritrovarono il mattino dopo, ancora vivo, sul mucchio dello strame dove era caduto gettandosi nel vuoto, da una finestra della torre. Visse per tre giorni senza più voler parlare, poi morì e fu sepolto. Sulla lapide un elogio delle sue virtù marziali e del successo nelle arti, scritto da lui stesso. Non c'era una parola sull'ultimo duello, combattuto per tre notti e tre giorni contro la superbia e la vanità e il cieco orgoglio e l'ambizione malata che l'avevano dominato per tutta la vita. Non c'era una parola perché l'ultima vittoria era proprio quella: di non aver più bisogno che lo sapesse il mondo.

SAGGEZZA DEI POPOLI

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